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| | Rammento un aneddoto che la nostra cara Gabry raccontò una volta, dicendo che all'esame di storia romana, la professoressa le aveva chiesto proprio: Cosa mangiavano i Romani? E da lì mi è sorta la curiosità. A Roma, nell’età regia e nell’avvio della fase repubblicana, soltanto due erano i pasti: il prandium e la coena. Talvolta erano preceduti dalla prima colazione, ientaculum, di mattina, a base di pane condito con vino e sale, oppure pane e miele, olive, latte, uva secca. Il sale lo fornivano i mercanti Fenici, che dagli empori della Sicilia trasportavano nel Lazio il bianco prodotto delle saline di Drepano (odierna Trapani). La seconda colazione, il prandium, aveva luogo a mezzogiorno con cibi di facile digeribilità, caldi o freddi, come pesce, legumi, uova, frutta, accompagnati dal mulsum, bevanda di vino miscelato a miele; il pasto principale consisteva nella coena, con antipasto di cibi adatti a stimolare l’appetito, come olive, crostacei, tartufi, salse piccanti (liquamen o garum), poltiglia il secondo di interiora di pesce esposta al sole per favorirne la fermentazione (un intruglio nauseabondo, a dire di molti, ma simile alla nostra pasta di acciughe a parere di altri); e ancora carne di agnello, di uccelli, di bue o di maiale. Sorseggiavano vini robusti talvolta miscelati ad acqua, secondo la regola fissata di volta in volta da un commensale, designato all’inizio del convito come re del banchetto (rex convivii). Ma Orazio, nella sesta satira del secondo libro, evocava con nostalgico rimpianto le improvvisate cene con gli amici nella sua rustica villetta di campagna, dove egli offriva ai commensali soltanto fave e fagioli conditi con lardo, e ciascun convitato, libero da pazze leggi, poteva bere quanto e quel che gli pareva, chi il vino puro, chi annacquato, mentre i temi della conversazione vertevano non sulla quantità di denaro posseduto da altri o sulle gambe di ballerini, ma su cose a cui ogni tanto bisogna pur pensare ed ignorarle è male: se sia la ricchezza a rendere felici gli uomini oppure la virtù, che cosa ci spinga a cercare l’amicizia, quale sia l’essenza del male e cosa si debba intendere per sommo bene. I vini più pregiati erano il Caecubum, il Massicum, il Falernum, il Calenum, provenienti per lo più dalla Campania. Dall’estero giungevano, fra gli altri, i vini di Chio, di Sicione, di Cipro. Si consumavano, inoltre, vinum rosatum (vino di rose) e vinum violatum (vino di viole). Era d’uso bere alla salute di un commensale tanti bicchieri quante erano le lettere del suo nome. Il banchetto nel suo complesso aveva termine con una libagione ai Lari, di cui venivano esposte le venerate statuette. Non mancavano in tavola i cibi vegetali come la diffusissima lactuca (insalata verde), i legumi (lenticchie, piselli, ceci) e, nelle occasioni speciali, le carni di lepre, di coniglio, di pavone, di vari uccelli, di capretto e d’oca con l’eccellente fegato. In apposite piscinae, per le famiglie dei patrizi, nuotavano le triglie, le murene, gli storioni, da pescare e da cuocere al momento giusto. Mele e datteri la frutta più ricercata; il dessert era composto di dulcia domestica (pasticcini fatti in casa), dactyli farsiles (datteri farciti), dulcia simulae (paste di semolino) e buccellae silinginae (bocconcini di segala). È noto a tutti che, in assenza dello zucchero, allora sconosciuto in occidente, si adoperava ovunque come dolcificante il miele prodotto dalle api, cui Virgilio dedicò non a caso l’intero IV libro delle Georgiche. L’olio di oliva, infine, dominava sulle mense. Dopo aver mangiato, i convitati rimanevano di frequente seduti; quest’ultima parte del convito era detta comissatio, nome riservato peraltro anche ai banchetti o alle gozzoviglie fuori orario. Nei primi secoli di Roma i pasti erano consumati in piedi; successivamente subentrò, nella sala da pranzo (triclinium), l’uso di un tavolo, ovale o rettangolare con attorno i lecti tricliniares, specie di ampi sgabelli a forma di divano che permettevano ai commensali di consumare pasti stando comodamente sdraiati alla maniera asiatica. Se c’erano donne, anch’esse si sdraiavano in perfetta commistione con i propri vicini e la generale baldoria si protraeva in piena allegria fino a notte inoltrata. Era la padrona di casa, in genere, ad allestire le vivande con l’aiuto delle schiave; in seguito, subentrarono i coqui (cuochi), che avevano alle loro indipendenze come aiutanti i culinarii (addetti alla cucina), i pistores (pasticcieri), i fornacarii (applicati ai fornelli). I cibi in genere erano portati a tavola tutti in una volta dentro un grande vassoio a comparti (ferculum). Non c’erano tovaglie a coprire la tavola; per asciugarsi le dita, che si immergevano in piccole brocche d’acqua, ciascuno portava con sé da casa una salvietta personale (mappa). Il vasellame era di coccio nelle case dei poveri; d’argento in quelle dei ricchi; le coppe (pocula), ornate di fregi, erano d’oro o di cristallo o di una tipica pietra opaca (murrina). Si ha notizia di banchetti di una sontuosità davvero straordinaria come quello che ebbe luogo nella lussuosa dimora del ricco Trimalchione, banchetto dettagliatamente descritto da Petronio Arbitro nel suo romanzo Satyricon (primo secolo dopo Cristo), alla cui peraltro piacevole lettura rinvio chi abbia voglia di approfondire il gustoso tema della cucina romana di epoca imperiale, dal momento che, anche se a Koori no Zyooo ha fatto impressione , è in realtà un ottimo specchio della Roma imperiale. Per quanto riguarda sempre la descrizione delle pratiche conviviali, è un valido documento di riferimento anche l'epistola 47 delle senecane Epistulae ad Lucilium, nella quale il filosofo descrive il ruolo fondamentale degli schiavi nella dinamica del banchetto: ciascuno infatti aveva un ruolo ben preciso, chi doveva occuparsi dello scalco dei volatili, chi controllare il comportamento degli invitati, chi versare il vino e così via. Uno dei primi trattati di gastronomia è poi l'Edifagetica di Ennio, scrittore dell'età arcaica, che però non ci è pervenuto; invece ho scoperto che ci è giunto un vero e proprio trattato, l'"Artis magiricoe libri X" famoso come "De re coquinaria", attribuito a Marco Gavio Apicio. Le traduzioni in commercio sono molteplici e nel libro vengono descritte ricette ordinate secondo menù. I romani del primo secolo dopo Cristo, epoca in cui Apicio scrive il trattato, conoscevano alcuni alimenti che sono arrivati sino ai giorni nostri come: il riso, numerose spezie (piretro, semi di mirto e di ruta), mele, cedri, albicocche, fagiani, struzzi e faraone. Esistono, al contrario, una serie di ingredienti a noi sconosciuti, che Apicio cita nelle sue ricette:
1. il siliphium una droga pregiatissima;
2. il garo, una salsa di pesce;
3. il liquamen, salsa base ottenuta dalla filtrazione del garo;
4. il colore, una pasta di fichi;
5. la lucanica, un salume.
Giusto per citarne alcuni. Ma esistono anche alimenti che non sappiamo identificare, ad esempio i lacerti (sgombri?) o la perca (pesce persico?) o il ficato (era un foie gras di maiale, di oca o tutti e due?). Ancora il collare porcino che poteva essere la coppa o il guanciale, probabilmente anche le albicocche e le pesche erano diverse dalle nostre. Ma, in pratica, cosa mangiavano i nostri antenati? Sulla tavole degli antichi romani abbiamo la presenza di vari tipi di pesce, carne, verdure, legumi, frutta secca, miele, erbe aromatiche, olio di oliva, vino, liquamen. Quest’ultimo, come citato in precedenza, è la salsa base della cucina apiciana; è un prodotto liquido che si ottiene dalla filtrazione del garo, ai giorni nostri potrebbe assomigliare ad una miscela di pasta d’acciuga e salsa di soia. Veniva usato come condimento ed è un ingrediente di molte ricette del testo. Come legante veniva usata la tracta, impasto di farina e acqua, il mosto dolcificato con miele e presumibilmente fermentato era chiamato mulso ed era anch’esso presente sulle tavole degli antichi romani. Da un punto di vista nutrizionale non possiamo esprimere un giudizio poiché non ci è arrivata notizia sulla frequenza del consumo di questi piatti (molte di queste ricette se non tutte erano ad uso e consumo esclusivo delle tavole patrizie), né dell’eventuale integrazione nella dieta di altri alimenti, si potrebbe semplicemente fare un’analisi bromatologica sommaria (sommaria perché Apicio non indica le quantità degli ingredienti delle singole ricette). Ci limiteremo, quindi, a descrivere quattro ricette tratte dal "De re coquinaria" , una di pesce una di carne, una di verdura e un dolce. In mitilus [ 9,XI, 1]: liquamen, porrum concisum, cuminum, passum, satureiam, vinum, mixtum facies aquatius et ibi mitulos coques. Traduzione Sui mitili: liquamen, porro tritato, cumino, passito, santoreggia, vino, fai una miscela acquosa e lì cuoci i mitili.
Vitellina frictra [8, V, 1]: Piper, ligusticum, apii semen, cuminum, origanum, cepam siccam, uvam passam, mel, acetum, vinum, liquamen, oleum, defritum. Traduzione Pepe, ligustico, sedano seme, cumino, origano, cipolla secca, uva passa, miele, aceto, vino, liquamen, olio, defrito. Il ligustico citato in questa ricetta è una comune pianta perenne della famiglia delle ombrellifere, che dona un aroma piccante, è una pianta che non viene più coltivata in Italia. Il defrito, invece, era un mosto concentrato a caldo.
Aliter carduos [3,XIX,2] Rutam, mentam, coriandrum, feniculum, omnia vitidia teres. Addes piper, ligusticum, mel, liquamen et oleum. Traduzione In altro modo i cardi: ruta, menta, finocchio, trita tutto verde. Aggiungi pepe, ligustico, miele, liquamen e olio.
Aliter dulcia [7, XIII,5]: Piper, nucleos, mel, rutam et passum teres, cum lacte et tracta coques. Coagulum coque cum modicis ovis. Perfusum melle, aspersum pipere inferes. Traduzione In altro modo dolci: pepe, gherigli, miele, ruta e passito pesta, con latte e tracta cuoci. Cuoci il coagulo con poche uova, coperto di miele, sparso di pepe servi.
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